Generalmente i vapori alcolici salgono dalla caldaia, dove è caricata la materia da distillare, e attraversano tutte le forme dell’alambicco fino al refrigeratore, per poi uscire dalla bocca di saggio. Se dalla caldaia i vapori incontrano un capitello molto ampio, ad esempio dalla forma a pera, allora si avrà un’espansione con conseguente diminuzione delle temperature e riflusso di una parte del distillato in caldaia. Più ci sono rigonfiamenti e strozzature più c’è riflusso e quindi c’è maggiore contatto con il rame catalizzatore di molte reazioni che generano complessità aromatica.
Molto importante nel percorso dei vapori è l’orientazione del collo di cigno (l’ultima parte dell’alambicco dove passano i vapori alcolici prima di arrivare al refrigeratore). Più l’alambicco ha una forma allungata, che si sviluppa in altezza, e ha il collo di cigno che arriva al refrigeratore con un’inclinazione rivolta verso l’alto, allora più ci sarà riflusso in quanto l’inclinazione farà tornare indietro le molecole più pesanti che condensano, lasciando passare solo le molecole aromatiche più volatili. Se invece l’imboccatura del collo di cigno si inserisce sul refrigeratore con orientazione verso il basso allora non sarà possibile un riflusso all’indietro e passeranno anche molecole più pesanti che caratterizzeranno molto di più il distillato rendendolo organoletticamente meno leggero. Nei punti dell’alambicco dove ci sono delle strettoie va inoltre ricordato che per leggi fisiche i vapori accelerano la loro corsa, pertanto anche questa caratteristica serve a creare la giusta dinamica di movimento per il trasporto delle molecole aromatiche che si vogliono selezionare nel distillato.
Se c’è però un passaggio molto stretto può accadere che i vapori vengano accelerati eccessivamente con conseguente minor controllo sui meccanismi separativi. Infine il refrigerante va sempre commisurato al resto dell’impianto in modo da consentire che il flusso dei vapori alcolici sia giustamente raffreddato. Sarà poi compito del maestro distillatore gestire il flusso dei vapori regolando l’acqua di refrigerazione e il regime del fuoco nei vari momenti della distillazione.
Le forme degli alambicchi sono le più disparate e rappresentano uno dei fattori caratterizzanti di un distillato basti vedere le differenze tra l’alambicco Charentais per il Cognac, gli alambicchi impiegati per il Whiskey, quelli utilizzati per la grappa o gli alambicchi per la frutta che sono i più versatili e consentono di distillare materie prime con punti di ebollizione differenti conservando gli equilibri separativi.
]]>Nel corso dei secoli sono stati sviluppati strumenti sempre più sofisticati e con criteri di funzionamento differenti; presentarne alcuni ci consentirà di definire le caratteristiche che contraddistinguono i distillati a seconda dell’impianto di distillazione utilizzato.
Così, volendo ricostruire l’identikit di un distillato, possiamo fare una prima distinzione tra impianto di distillazione continuo e discontinuo. L’impianto di distillazione continuo, messo a punto da Aeneas Coffey (da qui il nome Coffey Still), non è considerato un sistema artigianale. Questo prevede solitamente colonne con piatti di rettifica che rendono il distillato più neutrale portandolo ad alto grado alcolico in un'unica distillazione. Una caratteristica dell’alambicco continuo è la facilità di caricamento progressivo della materia prima senza necessità di bloccare l’impianto produttivo. Questo tipo di impianto si utilizza, oltre che per la produzione di alcol industriale, anche per produrre distillati dove il grado di purezza rappresenta un fattore determinante per definirne la qualità, un esempio su tutti è la Vodka.
L’impianto discontinuo (la materia prima va caricata ad alambicco fermo) prevede invece solitamente una doppia distillazione con il taglio delle teste e delle code effettuato nella seconda distillazione. Questa tecnica produttiva garantisce la purezza e la salubrità del distillato senza far perdere tutte le caratteristiche della materia prima. Gli alambicchi discontinui o Pot Still (per la somiglianza delle caldaie alla forma di una pentola) sono comunemente considerati alambicchi artigianali e si possono distinguere in alambicchi a fuoco diretto, a bagnomaria e a vapore.
L’alambicco a fuoco diretto caratterizza in modo più marcato il distillato a causa delle alte temperature che si possono raggiungere con il contatto diretto della fiamma sulla caldaia. È storicamente l’alambicco dei contadini e il più difficile da controllare. Con questa tipologia di alambicco alcuni maestri distillatori optano per un'unica distillazione con dei tagli più netti della frazione di testa e di coda in modo da conservare una certa rusticità del distillato. La lavorazione a bagnomaria è quella che consente il miglior controllo delle temperature garantendo un distillato più morbido al palato. C’è anche un incremento dei tempi di distillazione rispetto agli alambicchi a vapore, impiegati tradizionalmente per le vinacce, dove il vapore fa raggiungere temperature superiori ai 100°C.
Al di là delle distinzioni fatte ogni alambicco ha la sua forma e le sue proporzioni che si sono adattate nel tempo in base alle quantità e alle tipologie delle materie prime da distillare. Così ancora oggi le caratteristiche costruttive di un alambicco sono un segreto custodito da pochi artigiani.
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Vediamo più nel dettaglio cosa accade: le reazioni di ossidazione che avvengono in presenza di ossigeno determinano la formazione di nuovi acidi che si possono formare a partire dalle aldeidi già presenti nelle acquaviti. Gli acidi reagiscono poi con gli alcoli formando esteri, nuove molecole aromatiche che contribuiscono a sviluppare complessità nel distillato. A queste reazioni dalla cinetica lunga si aggiunge poi il contributo del materiale scelto, che consente al distillato di interagire in diversa misura con l’ambiente esterno e interno.
L’interazione massima si ha sicuramente con il legno. Il distillato, attraverso forze capillari, cerca di uscire dalla botte penetrando a fondo nei pori del legno, l’incontro ossigeno-distillato avviene in questi canali in cui l’acquavite è finemente suddivisa in particelle, si ha così un incremento della superficie di contatto distillato/ossigeno con ottimizzazione della cinetica di invecchiamento. Il legno inoltre cede al distillato composti polifenolici (tannini), in particolare il rovere, uno dei legni maggiormente impiegati, contiene quercetina, che è la sostanza colorante contenuta nel legno di quercia e tinge in aranciato-scuro il distillato.
L’acido tannico è invece una polvere leggermente giallognola amara e astringente e deve essere eliminata almeno in parte dalle botti nuove mediante ripetuti risciacqui per non inficiare gli equilibri del distillato. I legni scelti influenzeranno la quantità di tannini rilasciati e, in base alla tostatura, doneranno un’aromaticità differente al distillato. Vanno poi considerate le dimensioni della botte, la gradazione a cui il distillato è inserito (che modifica gli equilibri estrattivi), l'ambiente di cantina con le sue variabili climatiche di temperatura, umidità e pressione, e tanti altri fattori, tutti armonizzati dalla presenza dell’ossigeno e dall’azione del tempo.
Questo breve accenno è sufficiente ad evidenziare le infinite possibilità dell’invecchiamento dove il prezzo da pagare è sempre il calo di resa, ma la quota di distillato che evapora nell’ambiente di cantina rende la frazione che resta un vero nettare di grande complessità per cui vale la pena aspettare anche degli anni a patto che si sia accuratamente scelto cosa mettere in legno.
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Ad un’analisi più approfondita è la conoscenza delle materie prime e della loro lavorazione ad essere determinante per intervenire sulle variabili di distillazione. Così un vero distillatore dovrà formarsi alla scuola della natura e avere dalla sua un po’dell’agricoltore e un po’dell’erborista.
L’attitudine dell’agricoltore consentirà di fare le dovute valutazioni sui tempi di maturazione e sulla scelta delle materie da lavorare, indispensabile per i distillati ottenuti da materie prime fermentescibili (acquaviti). La conoscenza dell’erborista consentirà di lavorare le materie affinché l’alcol possa estrarre tutte le caratteristiche di interesse. Nel caso dei botanical spirits, per estrarre i principi attivi delle botaniche, oltre alla semplice macerazione ci sono altre tecniche che si possono impiegare quali la digestione, l’infusione, la decozione, la percolazione.
Generalmente se la tintura che si vuole preparare è di vegetali misti, questi sono nel rapporto di 1/5 rispetto all'alcol. L'alcol da impiegare va dai 60° ai 95°, il tempo di macerazione intorno agli 8 giorni per i vegetali freschi (foglie, fiori, steli, bucce d'arancia ecc.), 15 giorni per semi e droghe legnose, 30-35 giorni per le bacche, valori indicativi che possono variare in base alla tipologia di prodotto che si decide di lavorare e alla sensibilità dell’operatore. In distillazione quindi come possiamo intervenire per valorizzare il lavoro fatto con l’estrazione della tintura? Facciamo un esempio con il ginepro, dal momento che il Gin è il re dei botanical spirits: il Gin solitamente si ottiene per macerazione in soluzione idro-alcolica delle bacche e altre botaniche (London Dry Gin) per 24 ore, aggiunta di acqua e distillazione. In fase di distillazione via via che i vapori alcolici escono a temperature più elevate, la percentuale di acqua di cui sono composti sarà maggiore e riuscirà a portare con sé le frazioni solubili in acqua e le sostanze più alto bollenti.
Nel caso del ginepro si sentiranno allora note più tendenti al balsamico perché l’acqua riesce a portare con sé anche una parte degli oli essenziali. Fermandosi a distillare i vapori alcolici a temperature più basse e meno tendenti al punto di ebollizione dell’acqua avremo che la percentuale di alcol di cui sono composti i vapori sarà maggiore e tendenzialmente il sentore di ginepro si alleggerirà portando delle aromaticità più fini. Dal momento che il Gin non è ottenuto da fermentazione di una materia prima alcoligena e successiva distillazione, non necessiterebbe di taglio di teste e code perché non ci sono nell’alcol sottoprodotti di fermentazione, ma non va mai dimenticato che la distillazione è una tecnica separativa pertanto potremmo essere interessati a tagliare alcune frazioni in testa e in coda per scegliere il calibro aromatico del nostro Gin. Ad influenzarne le caratteristiche saranno naturalmente anche i tempi di infusione, e le altre variabili cui si è accennato in precedenza come il grado alcolico di macerazione e la quantità di materia prima impiegata che il distillatore-agricoltore-erborista dovrà saper ben bilanciare.
]]>Per fare Whisky serve torba, antracite, orzo, legno, ma l’acqua è un componente fondamentale che si utilizza in due fasi molto delicate del processo: all’inizio per far germogliare l’orzo sul pavimento di maltazione e alla fine per la diluizione del distillato invecchiato. L’acqua ha una sua territorialità tanto da rendere obbligatoria nel disciplinare dello Scotch Whisky la presenza di una fonte in ogni distilleria. Basti pensare che alcune distillerie con la fonte esaurita hanno dovuto chiudere!
Così ogni area di produzione avrà delle fonti con caratteristiche organolettiche differenti ad esempio i Whisky dello Speyside, una delle aree di produzione dello Scotch Whisky, sono caratterizzati dall’impiego di acque più dure. Lo Speyside è una valle circondata dalle Highlands, colline granitiche coperte da 3-4 metri di torba. Il granito non assorbe i sali minerali che ci sono nell’acqua, quindi li ritroviamo tutti nel Whisky.
Il Whisky è a tutti gli effetti un distillato di birra e nello Scotch Whisky la birra va dai 9 gradi ai 16 gradi alcolici. Vediamo quali sono i passaggi della produzione: l’orzo viene maltato, ossia fatto germogliare aggiungendo acqua scozzese, in tal modo gli amidi nel chicco si trasformano in zuccheri. Le tempistiche dipendono dal periodo dell’anno: mediamente ci vogliono dai 5 ai 10 giorni, ma il pavimento di maltazione deve essere sempre girato perché il tasso di umidità non deve essere eccessivo altrimenti il chicco marcisce. Il processo di germinazione viene fermato con aria calda prodotta da antracite e torba che vengono inserite nel forno.
Questa è una fase molto delicata che conferisce le caratteristiche note di torbatura tipiche di alcune produzioni. L’orzo maltato viene quindi essiccato, ridotto in farina, poi viene aggiunta acqua di fonte e il tutto viene portato a temperature di 60°C ed è solo in questa fase che, dopo opportuno raffreddamento, vengono introdotti i lieviti per avviare la fermentazione. Il Master Distiller assaggia la birra e una volta data l’approvazione si passa alla distillazione.
Lo Scotch prevede una doppia distillazione: la prima viene effettuata in un alambicco più grande e si ottiene alcol al 25%, nella seconda si ottiene invece alcol al 70% circa. Oltre all’acqua, le condizioni atmosferiche, la forma degli alambicchi e l’invecchiamento sono altre variabili determinanti per il Whisky.
Senza entrare nello specifico dei disciplinari di produzione è da evidenziare che la dicitura ‘Single Malt’ riferita al Whisky indica che la produzione è effettuata in un'unica distilleria usando esclusivamente malto d’orzo senza aggiunta di cereali e utilizzando alambicchi discontinui (pot-still). Invece la dicitura ‘Single Casc’ indica che il prodotto viene interamente da una botte senza alcuna operazione di bland.
]]>Eppure connesse alle caratteristiche mercuriali dell’alcol ci sono tutta un’altra serie di proprietà chimico-fisiche che lo rendono difficilmente quantificabile attraverso semplici misurazioni. In primis vi è il forte aumento di volume all’aumentare della temperatura. E allora se il volume non ci garantisce uno standard di misura si potrebbe pensare di effettuare un accertamento a peso.
Anche in questo caso però la questione si complica perché, se è vero che l’alcol puro ha sempre lo stesso peso, non è altrettanto vero quando l’alcol è miscelato con l’acqua alle diverse gradazioni possibili; in tal caso al peso complessivo della miscela contribuiranno sia l’acqua che l’alcol in una certa percentuale. Questa è proprio la situazione che si verifica all’uscita dall’alambicco, dove i distillati escono sempre in mix con l’acqua ad una gradazione che può variare a seconda della produzione e della tecnica di distillazione.
Per poter quindi effettuare la nostra misura è fondamentale conoscere la gradazione alcolica, ma come fare? Dobbiamo rivolgerci ad un altro strumento di misura, l’alcolometro (in foto), un densimetro che consentirà di leggere la gradazione sulla sua scala graduata. L’alcolometro tuttavia ha una scala tarata per dare la giusta lettura solo a 20 gradi di temperatura, perché a temperature differenti ci sono, come già detto, variazioni di volume e di conseguenza variazioni della densità.
Così, per chi deve quantificare l’alcol prodotto, la faccenda pare complicarsi di molto, dal momento che l’accertamento dell’alcol avviene a temperature spesso differenti dallo standard di riferimento. E allora come fare? La soluzione di tutta la faccenda risiede nelle tabelle alcolometriche: un insieme di valori acquisiti per via puramente sperimentale che consentono di apportare le dovute correzioni ai valori letti mediante alcolometro se le condizioni di misura si discostano dalla temperatura standard.
Vediamo ora quali sono tutti i passaggi necessari affinché la misurazione risulti univoca: si parte dall’accertamento del grado alcolico mediante alcolometro, si fa la correzione in base alla temperatura in modo da conoscere il grado alcolico alla condizione standard di 20°C, in base al grado alcolico rilevato si potrà leggere in tabella il valore corrispondente della densità della miscela. Si procederà così ad effettuare la misurazione del peso e, conoscendo la densità, si potrà risalire al volume della miscela, valore fondamentale dal momento che l’accisa si paga sulla base dei litri prodotti in particolare i litri anidri (un litro anidro è alcol al 100%).
Così per conoscere i litri anidri a partire dalla gradazione alcolica della nostra miscela basterà un semplice calcolo ( ad esempio: 100 L al 60% di alcol corrisponderanno a 60 litri anidri). L’accisa in Italia allo stato attuale ammonta a 10,3552 euro/alcol anidro, in Svezia la tassazione per i super alcolici supera i 50 euro/litro di alcol anidro, in Inghilterra e Irlanda super i 40 euro. Per chi volesse bere un po’ di più consigliamo di restare in Italia!
]]>Il clima preferito dalla canna da zucchero è quello caldo-umido e per questo viene coltivata soprattutto nei caldi paesi tropicali, dove le piogge sono molto abbondanti e la temperatura difficilmente scende sotto i 20°C.
La pianta si riproduce generalmente per talee prelevate dalla sommità dei fusti durante il raccolto e messe a dimora in buche distanti tra loro circa un metro e mezzo per facilitare la sarchiatura. Il trapianto deve avvenire a metà primavera e necessita un'abbondante quantità di acqua cosicché, nei mesi successivi, si possa accumulare lo zucchero all'interno della linfa. Il terreno ideale è di tipo argilloso-siliceo.
Al momento della raccolta della canna chiamata dai nativi cubani ‘zafra’, il culmo non dev'essere strappato, ma reciso in basso generalmente con un colpo netto di un macete, lasciando così la radice integra: in questo modo si svilupperà nuovamente il fusto consegnando un nuovo raccolto solitamente l’anno successivo.
La canna ha bisogno di tanta luce per crescere, ma ha bisogno anche di grandi piogge e alte temperature nel periodo di accrescimento (35°C); nel periodo della maturazione invece la temperatura ideale è di 20°C senza scendere sotto i 15°C. La canna resiste anche a temperature più basse, ma in tal caso viene sottoposta a forte stress. Il rischio di gelate con brusca diminuzione della temperatura è una delle problematiche della coltivazione di canna da zucchero in Italia, dove un ciclo di crescita più breve di circa 6-7 mesi consente di ottenere ugualmente un ottimo risultato, sebbene con una concentrazione zuccherina mediamente più bassa dei Caraibi.
Stilato l’identikit della canna da zucchero veniamo ora all’aspetto più importante: con 100 kg di canna da zucchero quanti litri di rhum si possono ottenere? Una stima media vede per una lavorazione di 100 kg di canna l’estrazione di 70 litri di succo puro. Se la concentrazione zuccherina è di 18°brix una resa ideale del 10% ci darebbe circa 15 litri di ruhm blanc.
I rhum non sono tutti uguali e la differenza è data dalla qualità della materia prima, ma ad influenzarne le caratteristiche sarà anche il tipo di alambicco e la tecnica di distillazione adoperata, ad esempio, mentre alambicchi pot still con una doppia distillazione daranno un rhum intorno a 75%vol con una frazione aromatica almeno tra 200 e 300 g/hl, alambicchi a colonna multipla con una distillazione continua daranno origine a distillati molto rettificati, ben oltre 86%vol, e quasi neutri in sapore, perché senza tutte le molecole caratterizzanti. Di fatto gli aromi di questi ultimi rhum deriveranno dalle lavorazioni post-distillazione, ma poco o nulla dalla materia prima.
L’espressione aromatica di un rhum può essere modulata in fase di fermentazione: fermentazioni di breve durata max 72 ore consentiranno di conservare una prevalenza di aromi primari della canna da zucchero, fermentazioni più lunghe di almeno 120 ore porteranno alla produzione di una maggiore frazione di esteri.
Nella stessa ottica di rispetto delle caratteristiche della materia prima va inserito l’invecchiamento. Per cui un rhum con un invecchiamento non eccessivamente lungo potrebbe sicuramente mantenere una maggior riconducibilità al lavoro fatto sulla materia prima.
Al di là del luogo di invecchiamento del ruhm, che in base alle caratteristiche climatiche definirà la dinamica evolutiva, la scelta dei legni sarà un ulteriore strumento di caratterizzazione in particolare botti ex Bourbon daranno una bassa cessione di tannini, conferendo morbidezza; botti ex Cognac, porteranno verso rhum più tannici e austeri.
]]>Al solo sentir pronunciare la parola ‘rhum’ le suggestioni ci portano subito ai Caraibi, ma la canna da zucchero, materia di partenza per la produzione del rhum, prima di pervenire in questi luoghi paradisiaci, ha viaggiato per mezzo mondo: partendo dall’Asia e attraversando l’Europa, con l’avanzare della conquista degli arabi è giunta in Spagna e in Italia, in particolare in Sicilia, dove era conosciuta come ‘cannamele’, poi in Calabria spingendosi fino alla piana di Formia e qualche propaggine in Toscana.
Solo nel 1493, nel suo secondo viaggio verso le Americhe, l’italiano Cristoforo Colombo ha portato la canna da zucchero ai Caraibi. L’orizzonte produttivo del rhum allo stato attuale è vasto al pari dei territori colonizzati dalla canna da zucchero e la sua espansione è storicamente connessa allo sviluppo della produzione dello zucchero da parte degli zuccherifici.
In America in particolare il clima favorevole consentiva di ottenere delle rese in zucchero superiori, inoltre il costo della manodopera degli schiavi era decisamente inferiore, due fattori determinanti che hanno portato alla scomparsa della coltivazione dal Regno di Napoli nonostante il Mezzogiorno fosse uno dei pochi territori in Europa ad avere delle condizioni ambientali adatte.
Le origini del nome rhum sono incerte: per alcuni sono da ricercare nel termine inglese rumble, "gorgogliare" connesso quindi alla fase di fermentazione degli zuccheri estratti dalla canna; per altri deriva da un’abbreviazione usata dai monaci e derivante da Saccharum Officinarum, nome scientifico della canna da zucchero. In questo articolo si è deciso di adottare la denominazione francese Rhum, invece della più diffusa denominazione inglese Rum o spagnola Ron, la scelta è dettata da alcune differenze produttive che fanno della lavorazione francese la più adatta a mantenere una forte connessione agricola con la materia prima.
Ogni paese ha infatti interpretato la distillazione in base ai gusti e al bagaglio culturale e tecnologico in suo possesso, così gli inglesi hanno distillato rum con gli alambicchi pot-still già impiegati per fare whisky scozzese partendo dalla melassa, materia mielosa incristallizzabile residuo della lavorazione dello zucchero; gli spagnoli hanno distillato il loro ron con gli alambicchi continui impiegati per la distillazione del brandy partendo sempre dalla melassa; invece i francesi hanno lavorato con gli alambicchi del cognac e dell’armagnac partendo dal puro succo di canna da zucchero. Una scelta di stile assolutamente condivisibile per poter degustare una produzione che comunichi i sentori della materia prima senza lasciar prevalere l’invecchiamento in botte.
Naturalmente la distinzione è legata ad una tendenza di stile produttivo Inglese, francese e spagnolo ma non può rappresentare assolutamente la totalità delle distillerie di un territorio, soprattutto quelle artigianali, che poco si prestano a questo genere di schematizzazioni. Ai Caraibi, isole coloniali, tutti questi stili convivono uno di fianco all’atro e in alcuni casi sono ibridati; inoltre c’è la variabile del luogo di invecchiamento che insieme al processo di produzione scelto determina le caratteristiche di un rhum.
]]>E allora la scelta della materia prima sarà per il distillatore come scegliere il blocco di marmo da scolpire. La conoscenza dei tempi di maturazione e delle tipicità varietali diventerà così un bagaglio conoscitivo fondamentale per poter ottenere il miglior risultato possibile, ancor più se si parla di distillati di frutta dove il lavoro è tutto orientato a comunicare i profumi delle materie prime di partenza.
Non tutti i frutti vanno lavorati maturi o surmaturi e non sempre vanno colti alla loro massima maturazione dall’albero. Per orientarsi sui giusti tempi di lavorazione va fatta una prima distinzione tra frutti climaterici e aclimaterici.
I primi hanno una porzione amidacea che può essere trasformata in zucchero con il passare dei giorni, anche dopo essere stati staccati dalla pianta. Nei frutti climaterici la maturazione viene accelerata non solo dall’etilene autoprodotto, ma anche da quello rilasciato dai frutti maturi vicini. A questa categoria di frutti appartengono banane, fichi, cachi, kiwi, mele, meloni, pere, pesche.
I frutti aclimaterici invece vanno colti al loro giusto grado di maturazione, pena la perdita di alcune caratteristiche organolettiche di pregio. Sono frutti aclimaterici l’arancia, il lampone, il limone, l’oliva, l’uva, l’ananas e la ciliegia.
Non va dimenticato che la distillazione della frutta è una pratica antichissima e ogni paese possiede un suo distillato tipico realizzato con i frutti prodotti dalla propria terra.
Il vasto mondo dei distillati di frutta spazia da quelli più esotici come il Bouza (distillato di datteri prodotto in Egitto), ai più famosi Kirsh (ottenuto dalla distillazione di sidro di ciliegie prodotto in Austria, Svizzera, Germania -Foresta Nera- Italia ed in Francia.), Slivovitz (distillato di prugne conosciuto con questo nome nell’Europa dell’est, ma si produce anche in Italia e in Francia dove è conosciuto con il nome della varietà più distillata che è la Mirabelle), Williamine (distillato di pere Williams tradizionalmente prodotto nell’Europa centrale).
Molte distillerie artigianali producono acquaviti di frutta a partire da varietà territoriali mai distillate prima con una produzione ricchissima che non si sottomette ad una facile schematizzazione.
In Italia, dove lo status di prodotto tradizionale è stato raggiunto solo dalla grappa (acquavite di vinacce), si tende ad indicare tutti i distillati di frutta direttamente con il nome del frutto designato, così si parlerà ad esempio di acquavite di ciliegie, di pere, di fichi, di prugne, di mele.
]]>Un altro metodo molto utilizzato, di cui approfondiremo le dinamiche, consiste nel diluire il distillato con acqua tiepida. Comprendere quali sono i meccanismi che lo rendono efficace ci aiuterà a spiegare un po’ tutti gli altri approcci.
L’estrema volatilità dell’alcol ha la facoltà di portare con sé le aromaticità ed eventuali difetti di distillazione fino al naso, ma la concentrazione alcolica in un distillato è così elevata da coprire la percezione olfattiva, così la diluizione con l’acqua funge da fattore mitigante, consentendo ai nostri sensi di funzionare meglio.
Anche al gusto la diminuzione della sensazione di bruciore prodotta dall’alcol consentirà in modo più agevole l’analisi. Un altro effetto della diluizione è dato dalla lieve reazione di riscaldamento del campione dovuto alla miscelazione di acqua e alcol, il che facilita la volatilizzazione delle sostanze contenute nel campione.
Se diluiamo oltre misura la volatilità dell’alcol verrà totalmente depressa dall’acqua e gli aromi, con eventuali difetti, non potranno più essere trasportati verso il naso.
L’aumento di temperatura favorisce la liberazione degli aromi, ma incrementa anche l’aggressività dell’alcol, quindi ci vuole il giusto equilibrio.
Da quanto fin qui esposto si potrebbero smascherare alcuni trucchi per nascondere eventuali difetti di distillazione, come decidere di servire il distillato freddo deprimendone tutte le caratteristiche organolettiche, difetti inclusi, oppure si potrebbe decidere di portarlo ad una gradazione alta in modo da assicurarsi che l’alcol prevalga su tutto.
C’è poi la strada dell’edulcorazione e dell’aromatizzazione che portano il distillato ad essere una base per operazioni di tipo liquoristico. Con questa affermazione non intendiamo denigrare l’aromatizzazione delle grappe che ha una sua dignità storica laddove la grappa era utilizzata dai monaci come base alcolica per la preparazione di infusi che avevano anche uno scopo medicinale.
A parte l'aggiunta di aromi (prevista dalla legge) alla quale alcune aziende ricorrono in modo da poter confezionare un prodotto a basso costo che poco ha da dire in termini di qualità e di storia delle materie prime, i prodotti attualmente in commercio, anche quelli industriali, hanno raggiunto un buono standard qualitativo per quanto riguarda i difetti di distillazione, ma un prodotto senza difetti non è detto che abbia dei pregi. La difficoltà del maestro distillatore è proprio quella di togliere, ma non troppo, per evitare di consegnare il distillato privato sì dei difetti, ma anche di tutte quelle note caratterizzanti che ne definiscono il corpo e la personalità.
]]>Una miriade di produzioni differenti per un modus operandi assolutamente non standardizzato. Nel precedente articolo si è fatto cenno alla tecnica di base, risulta ora doveroso evidenziare alcune lacune di comunicazione in etichetta che impediscono la valorizzazione di tutte quelle realtà che fanno del Solera una tecnica di blending di qualità, che in alcuni casi ibrida, oltre alle annate, anche i tipi di legno e le tostature, conferendo maggior pregio e complessità alla produzione.
E allora quando leggiamo l’etichetta di un Rum e troviamo scritto ad esempio ‘metodo Solera 10 anni’, questa dicitura che informazioni dà al consumatore? Un’informazione vaga. ‘Metodo Solera 10 anni’ infatti indica solo che in quella bottiglia è presente del distillato con 10 anni di invecchiamento, ma non ci dice in che percentuale. Sarebbe allora più corretto inserire in etichetta, oltre agli anni del distillato con invecchiamento massimo, anche gli anni del distillato con invecchiamento minimo.
Se prendiamo un sistema con 3 livelli di invecchiamento (vedi articolo Parte I) con una batteria di botti di 3 anni, una batteria di 2 anni e una batteria di 1 anno e viene imbottigliato una certa percentuale della batteria ad invecchiamento maggiore ogni anno (batteria Solera), accade che al primo imbottigliamento è possibile scrivere ‘Metodo Solera 3 anni’, ma l’anno successivo, quando si estrae altro distillato dalla batteria Solera, si potrà scrivere ‘Metodo Solera 4 anni’ e l’anno ancora dopo ‘Metodo Solera 5 anni’. Se invece che da tre livelli parto da 4 livelli di invecchiamento posso scrivere al primo imbottigliamento ‘Metodo Solera 4 anni’ e l’anno successivo posso già scrivere ‘Metodo Solera 5 anni’.
Adesso che differenza c’è tra i due prodotti ‘Solera 5 anni’? Nel primo caso il ‘Solera 5 anni’ sarà composto anche da ‘Solera 3 anni’ e ‘Solera 4 anni’ mentre nel secondo caso sarà composto tutto da ‘Solera 4 anni’ e ‘Solera 5 anni’ quindi se l’etichetta avesse riportato la doppia informazione del numero di anni di massimo invecchiamento e il numero di anni di minimo allora la distinzione si sarebbe palesata. Questa specifica però non è ancora sufficiente in quanto sia nel primo caso che nel secondo caso non conosciamo le percentuali delle varie annate che compongono il distillato imbottigliato.
Le percentuali dipenderanno dalla quantità di prodotto che si è deciso di prelevare ogni anno dalla batteria Solera, ma è un valore che difficilmente sarà possibile trovare in etichetta. In mancanza di un riferimento così preciso, cui si potrebbe dare spazio con un’etichetta parlante, il valore minimo di invecchiamento potrebbe essere il dato più attendibile per verificare la qualità del Metodo Solera, indicando implicitamente il numero di livelli della batteria Solera, dal momento che maggiore è il numero di livelli più il processo porta ad un invecchiamento di pregio.
]]>La questione è che esistono differenti modi di approcciare a questa tecnica di affinamento le cui variabili in gioco rendono priva di significato la sola dicitura ‘Solera’. Un esempio ci servirà da base per poter fare alcune considerazioni in merito: prendiamo una batteria di botti con invecchiamento 3 anni, una batteria di botti con invecchiamento 2 anni, una batteria di botti con invecchiamento 1 anno e l’acquavite appena distillata. Imbottigliamo una certa quantità della batteria con invecchiamento 3 anni e andremo a riempirla con parte del distillato della batteria con invecchiamento 2 anni, che resterà scolma e verrà riempita dal distillato presente nella batteria con invecchiamento 1 anno, quest’ultimo verrà infine colmato con l’acquavite appena distillata. Il ciclo verrà ripetuto con l’imbottigliamento successivo.
Questa è l’ossatura di base della tecnica, ma le variabili in gioco determinano la qualità del processo. In primis bisogna valutare i livelli di invecchiamento, che nell’esempio sono solo 3, ma potrebbero essere 10 o anche più. Un maggior numero di livelli, e quindi di travasi, garantirà l’imbottigliamento di un distillato con un tempo medio di invecchiamento maggiore. Un altro dato da conoscere è il numero di botti della batteria ad invecchiamento maggiore (‘Solera’) in rapporto al numero di botti di tutte le altre batterie (‘1aCriadera’, ‘2aCriadera’, ecc.). Facciamo un esempio: abbiamo 3 livelli con andamento piramidale dove la batteria Solera ha 4 botti, la 1aCriadera ha 3 botti, la 2aCriadera ha due botti. Se svuotiamo il 50% della batteria Solera per l’imbottigliamento, questa potrà essere colmata nuovamente con uno svuotamento del 66% della 1aCriadera, essendoci solo 3 botti che devono riempire le 4 della batteria Solera. A sua volta la 2aCriadera dovrà essere svuotata al 100% per riempire la 1aCriadera completamente.
L’andamento piramidale potrebbe però anche essere rovesciato oppure si potrebbe avere un numero di botti uguali per ogni batteria e allora in tal caso avremo che tutti i livelli si svuotano al 50% e negli imbottigliamenti successi resterà in percentuale più distillato a maggior invecchiamento. Determinante sarà anche la quantità imbottigliata, ad esempio, se invece del 50% si decide di imbottigliare il 30% il sistema evolverà negli anni verso un tempo di invecchiamento medio maggiore.
Non va dimenticato che questa tecnica ha proprio la funzione di standardizzare la produzione per più anni in modo da avere un invecchiamento sempre uniforme, cosa che può essere fatta anche con il semplice blending di cui il Solera rappresenta un’applicazione particolare. A volte però accade che la domanda di prodotto, per i meccanismi perversi del marketing, subisca delle impennate e allora le aziende si trovano costrette a dover velocizzare il loro Solera senza che questo venga reso evidente in etichetta. Questo fenomeno ha screditato il metodo che, se ben calibrato dimensionando le batterie in base alle esigenze di imbottigliamento, può dare ottimi risultati.
]]>Se prendiamo ad esempio la differente maturazione delle uve potremmo ottenere due grappe totalmente differenti: infatti a parità di tecnica di distillazione e a parità di materia prima utilizzata, le vinacce di un’uva più zuccherina, che tendenzialmente portano a un vino a più alta gradazione alcolica, danno una grappa più leggera rispetto alle vinacce provenienti da un vino che ha sviluppato minor alcolicità.
Tutto grazie alla capacità dell’alcol, di cui sono impregnate le vinacce, di estrarre le sostante aromatiche durante tutto il processo di distillazione. In particolare maggiore sarà la quantità d’alcol presente nelle vinacce più le sostanze estratte saranno diluite, viceversa minore sarà la quantità di alcol più le sostanze estratte saranno concentrate e la grappa che ne deriverà sarà più carica, proprio come avviene con un caffè più concentrato.
In realtà non è solo un discorso di concentrazione di sostanze aromatiche nell’alcol, in quanto le differenti caratteristiche della materia prima condizioneranno anche la temperatura media di distillazione che determinerà un profilo estrattivo completamente differente e porterà a due grappe diverse.
Spesso la concentrazione estrattiva condiziona la scelta del grado alcolico al quale il maestro distillatore deciderà di imbottigliare la grappa, ma va sempre ricordato che la gradazione alcolica della grappa è scelta dal maestro distillatore mediante diluizione del cuore di distillazione che esce dall’alambicco ad una gradazione media variabile ma tendenzialmente superiore al 60% alcol.
Gli Antichi, sebbene non avessero ancora colto molte delle implicazioni che il lavoro in vigna ha sulla grappa, avevano già compreso l’importanza di lavorare una materia prima di qualità e, non avendo la tecnologia di trasporto attuale, per evitare i processi di deterioramento della vinaccia applicavano una distillazione istantanea grazie ad un alambicco itinerante di vigna in vigna.
Oggi per esigenze produttive solo poche realtà artigianali riescono a lavorare subito le vinacce che vengono loro conferite, ben consapevoli che la tempistica di lavorazione, insieme alla pressatura delle vinacce e a tanti altri piccoli accorgimenti, sono dei fattori fondamentali per ottenere una grappa di qualità.
]]>Le competenze acquisite dai vari popoli nella distillazione sono state adattate alle differenti culture anche in base alle disponibilità delle materie prime da lavorare ed è stata proprio la mancanza iniziale di normative e regolamentazioni stringenti a lasciare spazio alla libera sperimentazione e all’affermarsi di una vasta gamma di distillati tradizionali, vero patrimonio culturale.
Con il sempre crescente processo di globalizzazione dei mercati è stato fondamentale censire e tutelare il maggior numero possibile di distillati tradizionali. Così per metter ordine in quello che è un vero e proprio universo è stato indispensabile sviluppare i disciplinari di produzione che oltre a tutelare l’indicazione geografica, laddove si ravvisino i requisiti della storicità, mirano a tutelare le procedure di produzione, vera garanzia di qualità.
Sebbene ci sia ancora molto da fare in termini normativi, la lettura delle diciture in etichette sta diventando uno strumento sempre più importante per la scelta dei consumatori. Quindi se da un lato si cerca a ragion veduta di tener conto in etichetta delle varie differenze nelle produzioni con denominazioni e diciture sempre più particolareggiate, dall’altro c’è l’esigenza di conservare una certa fruizione dell’etichetta da parte del consumatore.
Se prendiamo ad esempio in considerazione il Gin, il disciplinare UE nr. 110 del 2008 (che invitiamo a consultare per approfondimenti) riporta ben 4 definizioni che tengono conto di differenti tecniche di produzione:
Bevanda spiritosa al ginepro
Le bevande spiritose al ginepro sono bevande spiritose ottenute mediante aromatizzazione di alcole etilico di origine agricola…con bacche di ginepro; il titolo alcolometrico volumico minimo delle bevande spiritose al ginepro è di 30 % vol. …
Gin
Il gin è la bevanda spiritosa al ginepro ottenuta mediante aromatizzazione con bacche di ginepro di alcole etilico di origine agricola…Il titolo alcolometrico volumico minimo del gin è di 37,5 % vol. …’
Gin distillato
Il gin distillato è la bevanda spiritosa al ginepro ottenuta esclusivamente mediante ridistillazione di alcole etilico di origine agricola di qualità adeguata, …con un titolo alcolometrico iniziale di almeno 96 % vol. …’
London gin
Il London gin è un tipo di gin distillato ottenuto esclusivamente da alcole etilico di origine agricola, con un tenore massimo di metanolo di 5 g/hl di alcole al 100 % vol. …
Tecnicismi a parte i pochi passi citati mettono subito in evidenza alcune differenze che un consumatore deve poter conoscere per scegliere in modo più consapevole, pertanto un disciplinare che riesca a tener conto della diversità espressiva, garantita soprattutto dal tessuto delle microdistillerie e dei microliquorifici artigianali, è sicuramente uno strumento di valorizzazione inestimabile.
Reg.2019/787 abroga 110/2008.
]]>L’alcol al pari dell’oro non teme il trascorre del tempo e, tralasciando il mercato azionario, anche solo l’acquisto di bottiglie selezionate tra aziende ormai consolidate e piccole realtà emergenti potrebbe portare ad un incremento di valore del capitale investito. I distillati sono stabili; se ben conservati migliorano con il trascorrere degli anni e le tirature limitate di alcune produzioni garantiscono il requisito di scarsity che serve per dare valore ad un mercato.
Entrando nel dettaglio è interessante capire perché generalmente un invecchiamento in legno conferisce maggior valore economico ad una produzione.
L’alcol all’interno delle botti evapora e si ha un calo di resa che si traduce in una minor quantità di bottiglie vendibile dall’azienda a parità di lavoro di produzione svolto, a questo vanno aggiunti i costi della botte. La scelta dei legni (ciliegio, rovere, frassino, betulla ecc.) sarà quindi una discriminante per la determinazione del valore dei nostri spirits.
Il tempo di invecchiamento è un parametro che contribuisce ad incrementare il valore perché con il trascorrere degli anni i cali di resa aumentano e la distilleria ha un capitale immobilizzato oltre ad avere costi aggiuntivi di magazzino e lavorazione. Gli anni di invecchiamento vanno però contestualizzati rispetto alle dimensioni della botte e ai parametri climatici: maggiore è il volume della botte più il calo di resa sarà inferiore e l’invecchiamento sarà rallentato; un invecchiamento ai Caraibi, con una media di temperature più alta rispetto alla Scozia, porterà a cali di resa decisamente superiori.
I parametri di invecchiamento quali umidità temperatura e pressione contribuiranno inoltre a caratterizzare la produzione: una cantina molto umida porterà ad una diminuzione della gradazione alcolica della botte con un calo molto lieve del volume complessivo in quanto l’alcol è igroscopico e assorbe umidità, viceversa una cantina molto secca porterà ad una perdita sia di alcol che di acqua influendo meno sul grado alcolico e maggiormente sul volume complessivo della botte determinando una linea evolutiva differente. La distilleria per dare pregio al proprio operato dovrà poi scegliere se impiegare botti nuove o botti di secondo passaggio, utilizzate non tanto per il costo inferiore, quanto per una cessione di tannino più lieve e per conferire al distillato note del liquido precedentemente contenuto che vengono rilasciate dai pori del legno (es. botti ex Sherry oppure ex Bourbon).
Così chi conosce il valore reale di una produzione potrà garantirsi qualche bottiglia da dimenticare in cantina e se la crisi dura più del previsto poco male, avremo sempre una bottiglia da degustare che potrà riconciliarci con i nostri sensi.
]]>Lo zucchero è un ottimo alimento per il loro metabolismo, ma in presenza di ossigeno possiamo dire che viene praticamente sprecato trasformandosi in semplice acqua e anidride carbonica. È invece in assenza di ossigeno che avviene il grande miracolo della trasformazione dello zucchero in alcol e anidride carbonica (fermentazione alcolica), ma per cogliere i meccanismi che regolano il processo fermentativo bisogna comprenderne le variabili fondamentali.
I lieviti per vivere sviluppano calore che va a riscaldare la massa incrementando la temperatura. Tale innalzamento di temperatura dipende in modo diretto dal numero di lieviti, dalla quantità di zucchero e dalla biodisponibilità di quest’ultimo (un succo d'uva ha una biodisponibilità superiore rispetto a una purea di frutta densa e corposa).
Tutti questi fattori influenzano la velocità di trasformazione dello zucchero in alcol e il conseguente sviluppo di calore, oltre a definire la durata della fermentazione. Ora va detto che i lieviti a basse temperature mostrano un’attività rallentata, ma se le temperature dovessero salire oltre i 40 gradi morirebbero, con conseguente arresto del processo fermentativo.
Si immagini, ad esempio, di avere due partite di pere uguali in fermentazione, dove nel primo caso si parte da una popolazione di lieviti più bassa e nel secondo caso si parte da una popolazione molto più numerosa: se i lieviti sono pochi ci vuole più tempo per trasformare lo zucchero in alcol, ma se i lieviti sono troppi si produce troppo calore tutto insieme.
Sarà quindi fondamentale gestire il raffreddamento in modo che sbalzi termici non creino danni all’andamento del processo.
Se invece abbiamo delle pere e dei fichi in fermentazione a confronto, a parità di popolazione di lieviti, avremo che i fichi sono molto più zuccherini delle pere pertanto la fermentazione durerà di più in quanto gli stessi lieviti dovranno trasformare più zucchero in alcol.
Si tenga presente che i lieviti si moltiplicano in presenza di ossigeno, per questo motivo si fanno sempre rimontaggi e follature in grado di ossigenare la massa e favorire la moltiplicazione dei lieviti. Queste operazioni sono fondamentali nei primi giorni dove è necessario incrementare la popolazione di lieviti per avviare in modo deciso la fermentazione; infatti se dette procedure non vengono eseguite nella fase iniziale, i lieviti starter saranno troppo pochi e la fermentazione tenderà ad arrestarsi.
Qualora si dovesse procedere ad ossigenare la massa in ritardo, il poco alcol prodotto dall’esigua popolazione di lieviti fungerebbe da inibitore della moltiplicazione, rendendo la procedura totalmente inefficace.
Il caos vitale che si produce durante un processo fermentativo porta alla generazione di molteplici composti che non erano presenti se non in potenza nella materia prima. Così La complessità che viene generata per mezzo della fermentazione dovrà essere conservata da una giusta distillazione, che consentirà di distinguere in modo netto il profilo organolettico di un’acquavite da quello di un liquore o da una qualsiasi infusione.
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Il lavoro del distillatore sarà fondamentale per mettere ordine nel caos separando ciò che è gradevole e conforme da ciò che non lo è. Da qui tutta la ricchezza espressiva dei distillati dove la formula della qualità prevede sempre di partire da materie prime selezionate che non presentino marcescenze.
Il ribollire fermentativo (da ‘fervere’ che significa bollire), se lasciato libero di avvenire nella sua spontaneità, porta a risultati per nulla prevedibili e non sempre interessanti. Molte aziende così preferiscono selezionare i lieviti che innescheranno la fermentazione e controllare in modo stringente i parametri di produzione per poter garantire una certa riproducibilità. Questa è la logica dei grandi, ma i piccoli produttori, lavorando su altre quantità e con tempistiche differenti, hanno la possibilità, mediante fermentazioni spontanee (i lieviti trasportati dall’aria, sono già presenti nell'ambiente di cantina e sulla parte esterna delle materie da fermentare), di assicurare un certo grado di variabilità pur tenendo sotto controllo le variabili di processo.
La scienza ha ormai individuato il meccanismo fondamentale della conversione dello zucchero in alcol che si svolge nel citoplasma dei lieviti. Da una molecola di glucosio (C6H12O6), si ricavano due molecole di piruvato (C3H4O3). Tramite l’azione dell’enzima piruvato decarbossilasi, il piruvato viene trasformato in acetaldeide, e viene liberata anidride carbonica. Grazie all’azione di un ulteriore enzima, l’alcol deidrogenasi, l’acetaldeide viene infine trasformata in etanolo.
La conoscenza del meccanismo di reazione consente di prevedere con un semplice calcolo il potenziale alcolico in distillazione di una qualsiasi materia zuccherina. Se ad esempio abbiano 1 kg di zucchero in 10 litri di acqua la miscela avrà una concentrazione zuccherina pari a 10 brix e il tenore alcolico potenziale sarà pari a: 10 brix * 0,6 = 6% in alcol che è un valore teorico perché non sempre la fermentazione riesce a svolgersi completamente e poi ci sono i cali di resa.
Lo sviluppo tecnico ha sicuramente consentito di portare chiarezza sulle dinamiche che guidano il processo fermentativo, ma ad oggi non si conoscono ancora tutti i meccanismi di reazione secondari, così permane quell’alone di mistero da sempre legato alla fermentazione che dà spazio a svariate interpretazioni.
Felipe Fernandez-Armesto, storico della seconda metà del 900, ha ben espresso il potere suggestivo della fermentazione:
“La fermentazione è pura magia, perché sa trasformare un semplice grappolo d’uva (e aggiungiamo qualsiasi materia zuccherina) in una pozione in grado di mutare il comportamento, sopprimere le inibizioni, annebbiare la vista e spalancare le porte di interi regni immaginari.”
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